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12.03.2019.

Respirando anime

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Dicono che i ricordi dell’infanzia siano quelli che restano maggiormente impressi nella memoria. Non so quanto ci sia di vero in questa teoria, ma so per certo di avere già scordato cosa ho mangiato ieri per cena, mentre ricordo perfettamente alcuni episodi della mia giovinezza.

Il viso di Leila, per esempio, non l’ho mai dimenticato, sebbene dal tempo delle elementari sia trascorso un quarto di secolo. Certo, il fatto di averla sposata ha contribuito non poco a consolidare il ricordo della sua fisionomia, ma sono sicuro che il suo viso sarebbe rimasto nella mia memoria anche se avesse sposato un altro, anche se a me avesse preferito Luke Potter.
Luke era più grande di me di soli due anni, eppure quell’insignificante differenza d’età bastava a fargli assumere l’aria dell’uomo maturo davanti agli occhi delle mie compagne di classe. E davanti agli occhi di Leila.
Di quei tempi ricordo tante cose, tuttavia, tra le schegge del passato che ho conservato c’è un particolare che mi era del tutto sfuggito di mente, almeno fino al mese scorso. Avevo dimenticato una delle esperienze più significative della mia infanzia, avevo dimenticato il pulviscolo atmosferico.
Ammetto che, messa così e senza che vi fornisca ulteriori chiarimenti, quest’affermazione possa risultare quantomeno bizzarra, ma posso garantire che la scoperta del pulviscolo atmosferico ha avuto per me la stessa importanza della partenza di Luke Potter per un altro paese. Se il bulletto della Fergus Clay School fosse rimasto a Castleville, infatti, non avrei mai avuto la possibilità di farmi notare da Leila, ma è stata l’esperienza del pulviscolo atmosferico a fare di me l’uomo che sono, l’uomo che Leila ha voluto sposare.

Luke Potter è morto due anni fa. Guidava una Harley Davidson lungo la statale 93 quando è stato falciato da un camion che trasportava legname in Alaska. Io e Leila non eravamo ancora sposati, e vi confesso di aver accolto con sollievo la notizia della definitiva scomparsa di quello che, in modo del tutto infantile, avevo sempre considerato il mio unico rivale in amore. Un rivale che non avevo più visto dalle scuole elementari e che, per la mia memoria, aveva mantenuto fino alla fine l’aspetto di un bambino. E i bambini non dovrebbero guidare una Harley lungo la statale.

A questo punto, però, credo sia arrivato il momento di fare un po’ di chiarezza su quelle che potrebbero sembrare le dissertazioni di un folle, quindi procediamo con ordine e partiamo dal principio, partiamo ovviamente dal pulviscolo atmosferico.
Da piccolo mi piaceva osservare le casuali traiettorie del pulviscolo e ogni mattina, appena sveglio, cercavo quei frammenti microscopici in un raggio di sole che filtrava attraverso la finestra socchiusa della mia camera. Quel raggio, più o meno definito a secondo della stagione, dell’orario e delle condizioni meteorologiche, scatenava una danza di particelle che mi consentiva di iniziare un gioco assai bizzarro. Era un gioco silenzioso, una partita con la luce per strapparle con lo sguardo quanti più corpuscoli mi riuscisse. C’è chi conta le pecore per addormentarsi, io contavo i granuli di pulviscolo atmosferico per svegliarmi!
In realtà la mia non era una semplice operazione di calcolo, l’osservazione dei minuscoli granelli che galleggiavano nell’aria serviva a stimolare i miei pensieri e a farmi sentire meno solo. Si trattava, per così dire, di un’occupazione terapeutica e, nonostante avessi sempre saputo che quello spettacolo luminoso fosse causato dall’accumularsi della polvere, fu solo grazie a quell’abitudine che scoprii la magia di un mondo infinitamente piccolo e fragile, come piccolo e fragile ero io.
Per qualche anno i miei risvegli furono accompagnati dal gioco del pulviscolo, e questo rese speciali giorni altrimenti destinati alla banalità. Con il passare del tempo, tuttavia, il pulviscolo divenne sempre meno attraente e alla fine, al pari delle favole che ascoltavo da piccolo, smise di interessarmi e venne relegato in un recesso del mio subconscio. Erano gli anni dei balli scolastici, dei tornei di football e dei primi baci, tutte cose che non si accordavano con le fantasie di un bambino e con un po’ di polvere sollevata dall’aria.

A quei tempi Leila portava i capelli lunghi, legati in una treccia o sciolti sulle spalle. Oggi mi è difficile credere che la donna con i capelli rasati e il piercing sul naso sia la stessa persona di allora. Purtroppo, però, non è solo l’aspetto di mia moglie a essere cambiato, le cose si sono trasformate in un modo così radicale che talvolta fatico persino a riconoscere la mia faccia. Se non avessi smesso di giocare con l’infinitamente piccolo, forse il tempo sarebbe trascorso più lentamente e quello che oggi non capisco avrebbe una spiegazione, o quantomeno un’interpretazione verosimile. Quel passatempo innocente avrebbe potuto rendermi cosciente dei cambiamenti, e invece è rimasto nascosto in un anfratto della memoria dove io stesso l’avevo confinato. Fino a una mattina dello scorso agosto.
Ero immobile nel mio letto, madido di sudore per il caldo e innervosito da una lunga notte insonne. Gli occhi, irritati per un’allergia alla polvere che di tanto in tanto si riacutizza, indugiavano distrattamente sulla finestra socchiusa quando, per caso, ritrovarono il turbinio del pulviscolo nell’aria immobile della stanza da letto. In quel preciso istante, mentre migliaia di corpuscoli si agitavano davanti a me, una nuova consapevolezza pervase la mia mente, liberando echi del passato e colmando tutte le lacune della memoria.
Mi sentivo talmente eccitato che avrei voluto svegliare Leila per condividere con lei quello spettacolo ritrovato, ma mi trattenni dal farlo. Dubito che avrebbe condiviso il mio entusiasmo per qualche particella in sospensione nell’aria stantia della nostra camera. Sicuramente non avrebbe capito e, soprattutto, non avrebbe tollerato di essere svegliata alle prime luci dell’alba.
Guardai, dunque, da solo. Tutto era come da bambino, lo stesso microscopico caos alla deriva, la stessa danza sui primi timidi raggi di sole. Tutto uguale, tutto identico, ad eccezione di un piccolo particolare che inizialmente non avevo neanche notato: io potevo ascoltare la voce del pulviscolo.
In principio era come un brusio indistinto, un rumore confuso che credevo provenisse da dentro la mia testa, poi quel flebile suono si fece più distinto e divenne una cantilena nella quale potevo percepire delle voci, tante, tantissime voci. Mi sentivo il protagonista di un incontro ravvicinato del terzo tipo con una flotta di alieni in miniatura!
Mentre ascoltavo impassibile quell’anomalo vociare, mi parve di percepire la voce di una particella di pulviscolo che transitava davanti ai miei occhi. Quella scheggia minuta mi aveva avvicinato per comunicarmi un nome, Raznovich o qualcosa di molto simile. Non appena il loquace granello scomparve, mi concentrai su di un’altra particella, e questa volta riuscii a comprendere chiaramente cosa stesse dicendo: «Sono Rhonda…» sussurrava. «Io sono Rhonda Genkins.»
Anche il successivo corpuscolo volle rivelarmi un nome e, mentre precipitava rapidamente nell’ombra, lo sentii ripetere: «Ralphy, io sono Ralphy Carlington.»
Ben presto compresi che ogni frammento aveva un nome e che io, per quanto assurdo possa sembrare, ero l’unico in grado di comprendere il linguaggio del pulviscolo atmosferico, l’unico a poter ascoltare quei nomi, nomi che mi erano del tutto estranei.
Ci sono persone che di fronte a eventi inspiegabili vacillano, alcune possono anche perdere il senno come è accaduto a una collega di Leila dopo una seduta spiritica. Per me è diverso, io sono una persona pragmatica, di quelle con la testa sulle spalle, un uomo che difficilmente si fa prendere dal panico per l’apparizione di uno spettro burlone, o di un’ondata di polvere parlante. Tutto sommato mi considero un tipo di ampie vedute e devo riconoscere che la voce del pulviscolo non mi impressionò più di tanto. Il sentimento più forte in quel momento, lo stesso che tutt’oggi occupa i miei pensieri di giorno e i miei sogni di notte, fu la curiosità di scoprire cosa significassero quei nomi che non avevo mai sentito prima.
L’orologio sul comodino segnava le sette quando, tra un Ronald Tintoy e una non meglio precisata Meredith, un granulo di pulviscolo particolarmente irrequieto mi sussurrò un nome all’orecchio.
«Io sono Luke» disse, «sono Luke Potter.»
Ecco un nome che conoscevo, un nome che, rievocando la storia del bulletto delle elementari morto in un incidente stradale a venticinque anni, svelò finalmente il mistero della voce del pulviscolo atmosferico, e lo fece rendendo drammatico un avvenimento altrimenti eccitante.
I nomi che avevo ascoltato, così come quello di Luke, dovevano appartenere a gente defunta, a uomini e donne che non erano più su questa terra, non con i loro corpi perlomeno. Le anime dei defunti sciamavano nell’aria, e questa fu una scoperta sconcertante, persino per un tipo pragmatico e con la testa sulle spalle.
Tentai di allontanare con una mano quell’ondata di anime che mi scorreva accanto e, inavvertitamente, colpii Leila che si svegliò di soprassalto. I suoi occhi verdi, ancora assonnati, trovarono subito i miei e per un attimo, in quella stanza da letto, mi sembrò che ci fossimo soltanto noi due, niente pulviscolo atmosferico, niente anime vaganti, niente voci. Solo io e lei, e le nostre labbra che si sfioravano nel consueto gesto che contraddistingueva i nostri risvegli da quando vivevamo insieme. Una dolcissima abitudine che da sola sarebbe bastata a giustificare la scelta di sposarmi.

«Scusami» esordii. «Cercavo di schiacciare una zanzara.» Era la scusa più banale, ma anche la prima che mi venne in mente, e la più credibile.
«Maledette succhiasangue!» aggiunse lei accennando un sorriso. «Sei riuscito a prenderla?»
«Cosa?»
«La zanzara, l’hai presa?»
«No, temo di no…»
Il suo viso bellissimo conquistò il mio sguardo, spedendo il pulviscolo atmosferico lontano anni luce.
«Dormito bene?» mi domandò stropicciandosi gli occhi.
«Bene, sì. E tu?» Non avevo bisogno di chiederglielo, avevo praticamente vegliato per tutta la notte sul suo sonno tranquillo. Ma quella domanda, così come il primo bacio del mattino, era una consuetudine irrinunciabile.
«Come un ghiro… ho solo fatto un sogno strano.» Sbadigliò.
«Che hai sognato?»
«Bah, c’era tanta gente, una folla in movimento direi… forse un corteo o una manifestazione. Mi trovavo in mezzo a quella bolgia a cercarti… non ero sola, c’era qualcuno con me, un bambino, credo.»
«Chi era il bambino?»
«Non ricordo…» proseguì lei pensierosa. «Di sicuro qualcuno che conosco, aveva un viso familiare.»
Dopo quella frase le distanze tra me e il pulviscolo atmosferico tornarono ad accorciarsi, e cominciai a sospettare che Leila, seppure inconsciamente, potesse percepire come me la presenza delle anime che fluttuavano nell’aria.
«Vado a fare il caffè» annunciò sorridente, sgusciando fuori dal letto e avvicinandosi alla finestra per aprirla.
«Non…» Tentai di fermarla, ma ormai era troppo tardi. La luce pallida del mattino inondò la stanza facendo scomparire il pulviscolo atmosferico. Non riuscivo più a vederlo, non riuscivo più nemmeno ad ascoltare la sua voce, tuttavia sapevo che era attorno a me.
All’ora di pranzo Leila ricordò chi fosse il bambino che aveva sognato, e a quel punto la situazione prese una piega decisamente surreale. Mia moglie, nel territorio illusorio dei suoi sogni, era andata a spasso con il fantasma di Luke Potter, e questa rivelazione trasformò in certezze i miei sospetti sulle capacità oniriche di Leila. Lei aveva sognato le anime dei morti, ne era stata travolta come era accaduto a me con il pulviscolo, ma fortunatamente il suo incontro era avvenuto nel sonno e con il risveglio tutto era scomparso. La mia condizione era molto diversa. Io sapevo di vivere immerso nel fluido invisibile delle anime dei trapassati, e sapevo che una volta ascoltata la voce del pulviscolo nulla sarebbe stato come prima.
Da quella mattina d’agosto ho imparato a rispettare l’aria che respiro, e capirete bene che non sto parlando della protezione dell’ambiente o della salubrità dei gas che attraversano i miei polmoni. Oggi guardo ogni cosa con occhi diversi e mi sembra di percepire la sacralità della vita in ogni cosa che osservo, in ogni cosa che tocco.
Le anime sono ovunque, ridotte allo stato di schegge riempiono l’aria che respiriamo, e l’idea di poterle urtare, schiacciare o addirittura ingoiare, ha risvolti inquietanti che non riesco a accettare. Forse che anche le anime possono morire?
Per evitare che Leila soffrisse per i miei stessi dubbi, decisi di tenerle nascosta la faccenda del pulviscolo e iniziai a dormire con le persiane completamente chiuse. Non volevo più essere svegliato dalla danza delle anime, non volevo più essere circondato da un nugolo di spiriti inquieti e, più di ogni altra cosa, non volevo più ascoltare quelle voci. Avrei dormito nel buio più fitto se questo poteva risparmiarmi la vista dei fragili fantasmi dell’alba, e Leila, in qualche modo, avrebbe accettato quella mia scelta insolita accogliendola come un’altra delle nostre consuetudini, come il bacio del mattino e quello della buonanotte.
Per un po’, nell’oscurità della stanza da letto, il pulviscolo atmosferico scomparve dalla mia vita. Avevo ripreso a dormire tranquillamente e tutte le mattine, appena sveglio, filavo in bagno prima che mia moglie aprisse le finestre. Lei non conosceva la vera natura dei granelli che l’avrebbero inondata sotto la luce e, per me, vigliaccamente era sufficiente non guardare.

Mi sentivo nuovamente un uomo sereno e anche Leila aveva un aspetto più raggiante del solito. Tutto procedeva nel miglior modo possibile, finché non accadde qualcosa che nessuno avrebbe potuto prevedere.
È successo la settimana scorsa. Ero rientrato tardi da lavoro e mi sentivo talmente stanco che mi infilai subito nel letto senza chiudere le persiane. Leila già dormiva, e io dimenticai di darle il canonico bacio della buonanotte. Due mancanze imperdonabili. Piombai in un sonno profondo dal quale mi destai solo alle prime luci dell’alba, alle luci di un’alba che avevo imparato a credere buia, oscura come la notte che l’aveva partorita.
Fu Leila a svegliarmi, russava. Russava profondamente e a bocca aperta. Un raggio di sole le attraversava il viso perdendosi tra le sue labbra spalancate. In quel raggio scorsi infiniti corpuscoli in movimento, tante piccolissime anime inevitabilmente attratte verso le fauci di mia moglie.
Leila russava, russava e ingoiava anime. Per ogni respiro un milione di anime finiva nel suo stomaco. Era uno sterminio, uno spettacolo atroce e intollerabile che si compiva davanti ai miei occhi. E tutto per colpa di mia moglie.
Nel tentativo di evitare che quella strage assumesse le proporzioni di uno sterminio di massa, appoggiai una mano sulla bocca di Leila e, con il pollice e l’indice dell’altra, le tappai il naso per impedire che continuasse a respirare anime. Non c’erano altre soluzioni, almeno non mi pareva che ce ne fossero in quel momento. Dovevo uccidere lei perché non uccidesse tutte le anime di questo mondo. È stato doloroso, ma inevitabile.
Il cuore di Leila ha smesso di battere alle sette e quarantacinque, un istante prima che i suoi polmoni esaurissero completamente la loro riserva di ossigeno. Il medico legale ha dichiarato che è stato un infarto a portarsi via mia moglie, e io non ho alcuna voglia di contraddirlo.
Oggi vivo alla giornata, condannato non dalla gente che mi compatisce, ma dalla mia coscienza. Ho accettato la mia colpa e, da colpevole in attesa di una condanna non terrena, convivo con il rimorso lasciando che il pulviscolo atmosferico viva, o muoia, dentro di me. Non bado più alle turbinose evoluzioni dei minuscoli granelli che solcano l’aria, non faccio quasi più caso alle loro voci. So che ci sono, so che, per salvare loro ho sacrificato la cosa più bella che mi fosse capitata. Ho ucciso Leila per salvaguardare l’esistenza di una manciata di polvere parlante!
Dicono che i ricordi dell’infanzia siano quelli che restano maggiormente impressi nella memoria. Spero sia vero. Spero di non dimenticare mai il volto della ragazzina che portava i capelli lunghi, legati in una treccia o sciolti sulle spalle. Per il resto, tutto trascorre normalmente, vivo o, meglio, sopravvivo respirando anime.

Ieri notte, come faccio ormai da un mese, ho lasciato volutamente le persiane aperte. Non sono riuscito a dormire molto, il mio letto è diventato il posto più scomodo per cercare riposo. All’alba, solo e disperatamente bisognoso di una delle dolci consuetudine alle quali oggi devo rinunciare, mi sono svegliato piangendo e, piangendo, ho accolto l’ennesima visita delle anime. Tra tutte quelle particelle di pulviscolo atmosferico, come per rispondere a un richiamo appena percettibile, ho ascoltato la voce di quella più luminosa.

«Sono Leila» mi ha detto. «Io sono Leila…».

Pubblicato in: “Benvenuti a Castleville”, Liberodiscrivere (Genova), 2007.
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